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La Piet

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Era un mattino di fine Gennaio dell’anno 1965. Il sole era tiepido e a lato della strada cumuli di ghiaccio si scioglievano in vene d’argento che correvano sull’asfalto. Tra i rami neri dei tigli e degli ippocastani, un cielo limpido e azzurro avrebbe ispirato a chiunque salute, spensieratezza,  gioia di vivere, ma la signorina Luisa Pignotti, laureata in lettere e filosofia, supplente di storia d’arte al liceo classico Dante Alighieri, aveva in cuore una bruciante angoscia. Il notiziario del mattino aveva annunciato la morte di Winston Churchill. 

Fin da bambina la madre le aveva inculcato la convinzione che Churchill era colui che aveva sconfitto Hitler, che aveva strappato l’Europa agli artigli del Nazismo. “A lui dobbiamo se siamo ancora vivi” soleva dire nei sermoni che teneva a tavola all’ora di pranzo e ad ascoltarla c’erano lei e la nonna, vecchissima e ormai partita di testa.

“Grazie a lui possiamo parlare liberamente. Per esempio: se a te piace la torta di mele, ebbene, puoi dire: – A me piace la torta di mele- e non mangiare a forza la pattona di castagne. Mi sono spiegata?” Lei e la nonna assentivano, sebbene ognuna capisse a modo suo il significato di quelle prediche.

Adesso che Churchill era morto, le sembrava che il mondo avesse perduto il suo custode. Ora poteva accadere di tutto: che un altro tiranno si impossessasse del mondo, che tutti dovessero indossare una ridicola divisa e sfilare per le strade portando assurdi stendardi.

Lei pure aveva indossato la divisa di figlia della lupa e ne era stata orgogliosa, almeno fino a quando il padre non fu richiamato.

Ricordi in bianco e nero si affollavano nella mente. Il padre che partiva arruolato. Il suo abbraccio così stretto da farle male, poi arrivò una lettera dalla Russia e la mamma sbiancò in viso. Poi più nessuna notizia e tutte le notti la mamma non faceva che piangere. La sentiva da dietro la porta, dove si accovacciava perché avrebbe voluto dormire nel suo letto, ma le era proibito. 

Sul lungofiume i pescatori avevano gettato le lenze e lenti barconi carichi di legname discendevano la corrente. Un giorno su quella strada aveva incontrato Sara, la figlia di una coppia di ebrei che abitava di fronte a loro. Si erano abbracciate commosse fino alle lacrime. Sara le raccontò che i genitori erano stati scoperti sul confine svizzero e deportati, lei e suo fratello si erano salvati grazie a una coppia di svizzeri che li avevano fatti passare per loro figli. Finita la guerra, aveva cercato i genitori, ma invano, spariti nel nulla, come tantissimi esseri umani in quella orrenda carneficina.

Ricordava come se fosse ieri la sera in cui i genitori di Sara vennero a fare visita alla mamma. La signora aveva gli occhi rossi dal pianto, lui parlava a stento, quasi balbettava. Capì che non volevano che lei sentisse i loro discorsi e la mamma le ordinò di ritirarsi in camera a studiare. Nei giorni successivi le finestre del loro appartamento rimasero aperte, nulla faceva pensare che fossero partiti. Un giorno arrivarono due automobili della polizia. Dietro i vetri della finestra di fronte vide una faccia che pareva scolpita nella pietra. La mamma la prese per un braccio  e la tirò via  intimandole di non stare a curiosare.

Le venne in mente il giorno che suonarono alla porta. La guerra era finita e accadeva che bambini affamati suonassero domandando del pane. Corse ad aprire: un uomo pallido, emaciato la guardava sorridendo. Soltanto per istinto capì che quello era suo padre. 

Gridò: ”Mamma, vieni, vieni!” La madre accorse. Lei e il babbo si guardarono a lungo in silenzio, poi la mamma si accasciò in terra svenuta. Il padre era gravemente malato di polmoni e morì dopo sei mesi.  Lungo l’argine, una lunga teoria di casette imbiancate di fresco interrotta qua e là da buchi neri dove ancora non erano state rimosse le macerie, come se alla filiera dei denti della terra ne mancassero alcuni, caduti sotto i bombardamenti. Alcune case erano disabitate. Ogni famiglia aveva avuto il suo luto: un padre, un fratello, un’intera famiglia inghiottita nel fumo e nelle fiamme, deportata su un vagone merci. Il cuore le si stringeva ad ogni passo. Non aveva mai pensato a questo, ma la notizia della morte di Churchill le aveva aperto gli occhi della memoria.

Due operai tiravano su un palo della luce che il maestrale della notte aveva incrinato. “Non mollate! aveva detto lui, e noi non abbiamo mollato” Tanti giovani erano andati sulle montagne a unirsi ai partigiani. “Non mollate! Io non ho altro da offrirvi che sangue, fatica, lacrime e sudore” Il cuore le si colmava di patriotiche lacrime, gli occhi cominciarono a bruciare. Non voleva presentarsi in classe con gli occhi arrossati. Quei pettegoli avrebbero subito notato e magari sarebbe sfuggito un commento imbarazzante che lei avrebbe fatto bene a fingere di non sentire.

Una corona di nuvole avanzava dalla foce del fiume preceduta dal volo festante dei gabbiani. Ombre viola si stendevano sull’acqua. Il liceo non era lontano. La prese il disgusto di quel lavoro. L’inutilità dell’Arte era manifesta. Che le fosse dedicata un’ora la settimana era illuminante di quanto poco importasse che i giovani fossero educati alla bellezza, che era la vera sostanza del vivere civile.

“Stiamo allevando un popolo d’imbelli!” La collera e l’amarezza bruciavano più delle lacrime. Avrebbe cominciato a parlare a una scolaresca distratta, perché naturalmente le era assegnata l’ultima ora, quando i ragazzi erano stanchi e affamati.

Il corridoio era deserto. In un angolo il professore di filosofia discorreva con la collega di matematica a proposito di certi aumenti di stipendio, dell’assenza dei sindacati nelle trattative col governo.

Dalla sala delle proiezioni proveniva un mugghiare di tori feriti, di mare in tempesta. Erano i suoi alunni. La nausea divenne così acuta che dovette andare nella toilette a tentare un improbabile vomito.

Entrò in aula come un’ eroina del mito che non può sottrarsi al sacrificio sancito dagli dei. Il mugghiare si spense lentamente in un bisbiglio che durò fino al momento che lei, premendo un pulsante, non fece calare il grande schermo di madreperla.

“Angelina, spegni la luce per favore” ordinò. Una ragazza spilungona dalle lunghe trecce castane si alzò e spense la luce azionando l’interruttore sulla parete vicina al suo banco. Nel buio gli alunni divennero ombre grigie accasciate sui banchi, più sopportabili del loro aspetto materiale nella luce del giorno.

“Bene! Per continuare con Michelangelo Buonarroti, oggi parleremo della Pietà Rondanini. Quest’opera marmorea fu l’ultima di Michelangelo. Pare che l’autore volesse porla sulla sua tomba. Invece passò di mano in mano fino a essere acquistata dalla famiglia Rondanini da cui prese il nome” Nel disinteresse generale, la sua voce le pareva assurda, come tenere un discorso a nessuno.  I maschi dei banchi più lontani parlottavano tra loro, le ragazze si rassettavano i capelli. Pur non vedendola, indovinava Tiziana Rastelli in terza fila che si limava le unghie.

“Chi sa dirmi perché si chiama –La Pietà-?”

“Perché tutte le sculture che rappresentano il Cristo morto in braccio alla Madonna sono chiamate Pietà” Dal primo banco della fila di destra la voce squillante di Giuseppe Ampollini, un ragazzino biondo, slavatino, con un paio di occhiali pesanti da miope.

Risposta da perfetto secchione, pensò stizzita la professoressa. Tuttavia la domanda aveva in certo qual modo scosso l’uditorio.

“Sapete dirmi cosa è la Pietà?”

Perfino Giannelli aveva sollevato, con l’indolenza di un bel soriano, il  capo biondo ricciuto che posava sullo scrittoio ostentando completo disinteresse, tanto sarebbe stato promosso ugualmente essendo la madre l’amante del signor preside. Il bisbiglio del fondo aula si era spento, sostituito da uno scricchiolare di legni.

“La Pietà” Continuò la professoressa con voce che manifestava una forte tensione emotiva “ è un sentimento che ci permette di condividere il dolore dei nostri simili e di tutte le creature del mondo. Con questa opera lo scultore vuole far sì che noi condividiamo il dolore della Madonna per il figlio morto, il dolore del Cristo torturato e ucciso innocente.

Sapete voi che non più di venti anni fa” Le venne da dire, e questo non era programmato nella lezione “ milioni d’innocenti: bambini, uomini e donne furono torturati e uccisi nei campi di sterminio?

E che milioni di giovani, non molto più grandi di voi sono morti combattendo per donare a noi la possibilità di pensare, di parlare, di scegliere i nostri governanti, per donare a noi la Libertà? Avete pietà per essi, siete capaci di condividere il loro dolore?” Il cuore le si era scaldato oltre ogni sopportazione. Era tempo di concludere il sermone che le era sfuggito di mano.

“Questo è ciò che Michelangelo vuole domandarci attraverso i secoli con questa opera stupenda! A noi e a tutti quelli che verranno dopo di noi” Anche lo scricchiolio dei banchi era cessato e un silenzio profondo regnava nell’aula.

“Sapete voi chi era Winston Churchill?”

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